Il perfezionismo è correlato con molte espressioni di sofferenza psicologica (mi rifiuto di chiamarle “patologie” o “psicopatologie”, ma questa è un’altra storia, che avrò modo di approfondire). Per esempio, lo si trova come tratto trasversale in molti disturbi di personalità (così la psichiatria etichetta le diverse manifestazioni di ciò che altro non è che l’accentuazione, spesso molto marcata, di tratti che serpeggiano in ciascuno di noi). Qualche esempio: 

In una personalità (prevalentemente) ossessiva il perfezionismo può declinarsi come sforzo strenue di portare a termine senza sbavature i compiti performativi (ma cosa non è compito performativo, per un ossessivo?); laddove l’assenza di sbavature serve a ottenere un giudizio positivo e a evitare lo spettro più temuto: imbattersi nuovamente nell’immagine dell’espressione dell’altro deluso; un’immagine che non ha mai smesso, sin da fasi precoci dello sviluppo, di colonizzare la mente.

In una personalità (prevalentemente) narcisistica, il perfezionismo può declinarsi come focalizzazione maniacale su una molteplicità di obiettivi, e necessità di mantenere un livello superlativo di prestazione rispetto a ciascuno di essi; non solo obiettivi lavorativi, perché anche, che so, il successo nella seduzione sessuale e sentimentale può configurare un obiettivo dove il successo è un imperativo. Qui la prestazione superlativa – la vittoria a tutti i costi - serve ad alimentare un’immagine grandiosa di sé; e l’errore, l’imprevisto, l’ostacolo non accendono la rappresentazione di sé come deludente, ma la brace dell’umiliazione.  

In una personalità (prevalentemente) dipendente, il perfezionismo può declinarsi come urgenza costante di leggere (quasi telepaticamente) con la massima precisione e puntualità i desideri dell’altro cui ci si lega mani e piedi. Qui l’errore significa che il desiderio dell’altro non è soddisfatto prontamente; e se accade questo, l’altro potrebbe provare disagio; e se l’altro prova disagio, può allontanarsi: l’errore del soggetto equivale quindi all’incremento esponenziale della possibilità di perderlo, perdendo così la relazione, che è colore sulle pareti grigie dell’esistenza.

E si potrebbe continuare a lungo. Per esempio, il perfezionismo si associa a scenari clinici che le prospettive teoriche più diffuse considerano (erroneamente) altra cosa rispetto ai disturbi di personalità; per esempio i disturbi della condotta alimentare. In questo ambito il senso comune non fatica a contemplare che una persona anoressica deve essere per forza molto perfezionista. La forma esasperata di contabilizzazione delle calorie e degli impulsi che caratterizza l'anoressia è intrinsecamente perfezionistica. Ma pochi sanno che la realtà clinica, cui poco importa di molti manuali e teorie, mostra che non raramente anche persone che indulgono in abbuffate o con conclamata bulimia possono avere un lato estremamente perfezionista.

Perché il perfezionismo è un tratto così ubiquitario? Per comprenderlo dobbiamo capirne l’origine nella storia di sviluppo del singolo individuo, inscrivendo il perfezionismo in una cornice più ampia di significato. Capire in un modo non troppo teorizzato; un modo capace di risuonarci dentro. 

Ne parlerò nella prossima puntata. 


 

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