Sebbene vi sia una vasta letteratura su di esso (si veda per esempio l'ampia e penetrante produzione scientifica di Hevitt), la realtà clinica mostra che il perfezionismo non va guardato come tratto isolato. Esso va inserito in una cornice più ampia di significato. Cosa vuole dirci un paziente con un tratto di perfezionismo marcato? Essenzialmente che ha trovato nel corso del proprio sviluppo una strada, probabilmente l'unica percorribile, per ricevere uno sguardo amorevole (o anche solo uno sguardo) da parte dell'altro affettivamente significativo. Questa persona ha imparato che l'unico modo per sentirsi presente nella mente delle figure fondamentali del proprio ambiente relazionale era mostrarsi scrupoloso, diligente, responsabile, magari anche privo di vulnerabilità e incertezze e/o della spinta all’esplorazione.

Il nostro sé è come una distesa di neve fresca, in cui forse il temperamento crea sfumati avvallamenti. Ma è il nostro ambiente relazionale che sin dalle prime fasi della nostra vita inizia a camminare su quegli avvallamenti e a produrre la prima traccia di un sentiero. Questo "passo" sull'abbozzo di sentiero è il desiderio dell'ambiente relazionale. Esso, e la nostra attenzione catturata da quel passo, faranno diventare quella traccia un sentiero vero e proprio; e il sé è destinato a identificarsi con quel sentiero. Il sentiero si consoliderà come tale, trasformando il sé nella magnificazione del desiderio dell'altro. Qualsiasi nuova esperienza passerà su quel sentiero, ora diventato griglia di attribuzione di significato a quell'esperienza.

Un paziente perfezionista non è solo perfezionista. Non va visto solo nella sua tendenza a voler essere perfetto e nel conseguente terrore dell'errore, ma anche (soprattutto se vogliamo comprenderlo veramente) nella sua incapacità, che è condanna a vita, di non poter essere altro che questo. Ciò implica - tra le altre cose - l'impossibilità di esperire la vicinanza autentica dell'altro; la profonda solitudine in mezzo a persone nominalmente intime; l'angoscia per l'evenienza che il proprio viso si contragga in una smorfia di dolore davanti a testimone - dolore che il paziente si aspetta sarà giudicato e non capito.

Mi è capitato recentemente di dare aiuto a un paziente "perfezionista". Aveva appena superato brillantemente un esame. Aveva visto lo sguardo fiero del padre per l’esito. Abbiamo compreso che aveva bisogno di quello sguardo fiero per iniettare un bolo di vita nell'organismo. Ma poi abbiamo scorto un moto affettivo più in ombra, scoprire la quale lo ha sorpreso: la rabbia, a sua volta conseguenza del dolore di essere ancora una volta visto solo come produttore di risultati performativi, stabilizzatore di autostima altrui, mezzo di soddisfazione del desiderio dell'altro come dazio sull'amore.


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